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ABOUT ME

"La fotografia è il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, del significato di un evento", diceva Henri Cartier-Bresson. "Solo la fotografia ha saputo dividere la vita umana in una serie di attimi, ognuno dei quali ha il valore di una intera esistenza", sosteneva Eadweard Muybridge.

Ruota intorno a queste affermazioni la filosofia con la quale Giovanni Franco, - giornalista dell'Ansa ed ex redattore del quotidiano L'Ora, - si rapporta con la fotografia. Una lunga passione la sua. Ha cominciato scattando con le reflex analogiche. Sviluppando e stampando le foto, da solo in camera oscura, giocando con le sfumature del bianco e nero o con i colori delle diapositive. Ha esposto le sue foto in diverse mostre a partire dagli anni '80, tra le quali quella nei locali dell'Università di Palermo sul mercato della Vucciria a cura dell'Etsi, e nel teatro Libero in vicolo Sant'Uffizio per la rassegna Incontroazione, diretta da Beno Mazzone , (Cromatica muraria tra scenario e struttura), con prefazione nel catalogo di Francesco Carbone.

Poi il passaggio al sistema digitale. Con una predilezione per le foto a colori. Tra le ultime mostre, fra le altre, quelle nel museo Mandralisca a Cefalù (Pa), (La vita recitata ad altezza D'uomo), nel castello di Castelmola (Me), ("L'isola a colori vista da Giovanni Franco. Viaggio fotografico in Sicilia"), nel complesso monumentale "Filippo Corridoni" a Mazara del Vallo (Tp) (ObiettiVita), nel club culturale a Castellana Sicula (Sentieri Provenzali), nella libreria Ausonia a Palermo (Brani di Sicilia),  a palazzo D'Amico a Milazzo (Corso Siclia), nella sala partenze dell'aeroporto Falcone-Borsellino (Scatti d'ali), nel foyer della Sala Strehler del teatro Biondo a Palermo  (Paesaggi temporali) insieme a Michele Ginevra e a Filippo Sproviero.

E' autore del libro Parole a scatti, nella collana "Coup de foudre", diretta da Accursio Soldano per la Aulino editore con con testi di Rita Baio, Attilio Bolzoni, Laura Bonelli, Domenico Catagnano, Riccardo Catagnano, Salvatore Ferlita , Rocco Mortelliti ,Giuseppe Recca e introduzione di Enzo d’Antona.

Ha pubblicato anche un e-book di immagini dal titolo 'Scattaiolando', a cura di Flora Graiff.

Da cronista ha scritto articoli su vari argomenti: economia, politica, cultura, spettacoli. Ha diretto il mensile 'Assemblea'. Ha collaborato con la Rai e con il settimanale 'Il mondo' della Rcs. Le foto scattate da lui sono state pubblicate, oltre che nel circuito dell'Ansa, anche sui quotidiani: L'Ora, la Repubblica, Corriere della Sera, Il Piccolo, La città di Salerno e come sigla nella trasmissione Tgr Mediterraneo su Raitre. Il Poliedro.

Hanno scritto delle sue foto: Federica Certa, Nicola Cristaldi, Nicolò D'Alessandro, Enzo d'Antona, Valeria Ferrante, Giulio Giallombardo, Lillo Gullo, Laura Grimaldi, Vincenzo Lombardo, Luca Mazzone,  Valerio Morabito, Rosana Rizzo,  Mariella Pagliaro, Milena Romeo, Evelina Santangelo, Accursio Soldano, Bianca Stancanelli. 

Quell'estate, intervallo tra l'una e l'altra inquietudine

 

di Bianca Stancanelli, giornalista e scrittrice

 

Ha scritto Gesualdo Bufalino che l’obiettivo fotografico agisce come «una terza più crudele e infallibile pupilla» che ha il compito di «censire, tesaurizzare e ripetere all’infinito l’effimero universo delle apparenze». La pupilla di Giovanni Franco si è qui esercitata a far memoria della prima estate dell’era del Covid-19, restituendoci immagini, colori, serenità e allegrie di una stagione che non sospettavamo fosse soltanto un intervallo tra l’una e l’altra inquietudine, l’una e l’altra angoscia.

Ci sono molte mascherine in questa galleria d’immagini: indossate correttamente, scivolate sul mento o sul collo, messe in mostra in un negozio d’abbigliamento, beffardamente imposte alla statua di padre Pio. Mascherine bianche, azzurre, a bolle, colorate, con sovrimpresse labbra a canotto, come per un malriuscito ritocco estetico. E c’è un documento di incantevole ironia: accanto a un cartello scritto a mano, appeso all’ingresso di un bar o di una bottega per ammonire che senza mascherina non si entra, appare una sarabanda di Pulcinella scatenati, ognuno con mascherina sì, ma sugli occhi e sul naso, com’è d’obbligo per quell’icona della più spavalda napoletanità. Sberleffo scanzonato per rischiarare d’allegria l’obbligo di mascheramento collettivo.

Una foto mi piace particolarmente, per la sua carica simbolica: l’immagine del verduraio che, con gli occhiali inforcati sulla mascherina e i guanti, rifila con un coltello un cespo di lattuga. Nella calda luce di una giornata estiva, il bianco immacolato della mascherina (con valvola di sicurezza), l’azzurro dei guanti e il verde della lattuga sembrano scintillare e la nitidezza dei contorni suggerisce la prudenza, forse perfino la diffidenza che ispira ormai anche il più quotidiano dei gesti. Quel verduraio che affronta l’insalata travestito da chirurgo evoca il senso più profondo della pandemia: l’ansia di doverci difendere dalla natura, madre del virus, dopo averla a lungo sfidata. E viene da pensare al «dolore del mondo offeso» che angustiava l’arrotino filosofo della Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini.

Anche il verduraio prudente è un campione di quell’Italia che resiste che Giovanni Franco è andato rintracciando sulle spiagge affollate dell’estate, ai bordi delle fontane, sui prati dei parchi, sugli scogli che i gabbiani condividono con i pescatori, sui gradini delle chiese dove gli innamorati si scambiano baci e promesse, ai tavolini dei bar. È un catalogo di momenti sereni, la cronaca del ritorno al semplice piacere di vivere dopo i mesi bui e spaventati del lockdown.

«… basterà frugare fra questi cimeli», cito ancora Bufalino, «perché questa o quella giornata risorga, d’un tempo antico e perduto, sotto il duplice ma compatibile segno della prossimità più vivace e della lontananza più gelida». Così adesso, inoltrandoci nell’autunno del nostro scontento, guardiamo la radiosa ragazza che accenna un sorriso tra un’onda e l’altra, in un trionfo di spuma, per ritrovare la speranza in una nuova estate di libertà.

 

La qualità affettiva di uno sguardo

di Evelina Santangelo, scrittrice

A volte la percezione delle cose è condizionata e alimentata da circostanze del tutto casuali.

Così, non so dire se il fatto che queste foto mi siano arrivate proprio mentre stavo rileggendo Le parole sono pietre di Carlo Levi abbia orientato la mia visione più di quanto non sospetti. Fatto sta che la prima cosa che faccio, dopo essermi più volte soffermata sugli scatti di Giovanni Franco, è andare a rileggere la descrizione del paesaggio fatta da Levi (in uno dei suoi viaggi in Sicilia) nel momento in cui sta per abbandonare l’ultimo lembo di Calabria:

«Guardavo, appena svegliato, quella luna lucente nel liquido metallo grigio-viola del cielo… quasi dubbioso che essa fosse un sole impallidito; e vicini passavano i boschi d’argento e i campi degli aranci e dei limoni con le fresche ombre oscure e le palle dei frutti fosforescenti di una loro luce interna rossa e gialla, come piccoli soli…»

Certo, non è ancora propriamente la Sicilia quella che Levi descrive in queste righe, ma è comunque un paesaggio che ha già dentro il sentore della «Sicilia favolosa» che lo scrittore scorge dalla costa.

Quel libro, poi, sarà piuttosto un notturno in cui affiorano prepotenti i segni dolorosi di un Mezzogiorno che in «modi propri e particolari si muove». Però quella sua capacità di cogliere luce e colori connaturati a un pezzo di terra del Sud mi sembra sia la cifra giusta per leggere la Sicilia che ci restituisce con i suoi scatti Giovanni Franco. Non la terra assolata e aspra, dalla luce compatta e durissima che la letteratura spesso ha immortalato in pagine memorabili. Non il giallo infernale che sa di febbre. Non le lande sterminate e nude dei feudi. Ma un paesaggio vivido e umano.

«Le mie immagini sono costruite a partire dall’ombra», diceva Ferdinando Scianna a proposito della sue fotografie, fatte di contrasti drammatici di luci e ombre. Contrasti che, nei più grandi maestri della fotografia siciliana (Letizia Battaglia, Nicola Scafidi, Enzo Sellerio, lo stesso Scianna appunto) si fanno testimonianza, denuncia, resistenza dinanzi a un quotidiano durissimo, attraversato da conflitti, esilii spirituali, passioni schiaccianti e, spesso, devastanti, o si fanno memoria polemica, racconto dolente in un rapporto sempre strettissimo, testimoniale, con il territorio.

Certo, qui, il rapporto con il territorio rimane forte, ineludibile. Niente a che vedere con l’immaginario visionario, onirico, radicalmente trasfigurante spesso di quella nuova scuola siciliana che passa attraverso le immagini di fotografi come Carmelo Bongiorno, Carmelo Nicosia, Sandro Scalia.

Ma quel rapporto, nelle fotografie di Franco, lo cogli soprattutto nella qualità affettiva dello sguardo che si posa sulle cose, restituendole nell’intensità dei colori e della luce appunto. Una luce che permea tutto: paesaggi che sembrano appena modellati dalle mani di un dio mite; scorci di architetture in cui, più che l’abbandono o il degrado, prevale spesso un tratto bizzarro e sconclusionato (una ringhiera tinteggiata di blu su una facciata maestosa, una geografia insensata di fili elettrici, scrostature, a incorniciare un balconcino che, a sua volta, incornicia un cane…), quella bizzarria sconclusionata, dicevo, che è poi uno dei tanti volti di questa terra, dove i mulini delle saline possono anche avere un’aria fiabesca, da sentinelle meravigliose di un paesaggio d’acqua e cielo.

Né è dissimile lo sguardo che coglie momenti e gesti umani di figure che, spesso, sembrano miniature, infiorescenze cromatiche o profili in controluce nel paesaggio. Creature che ricordano, a tratti, per i contesti (anche cromatici) in cui sono calati, la realtà di certe terre sudamericane remote, dove il tempo è declinato fuori dai simboli e dalle icone di questa nostra esistenza febbrile, tecnologica e franta in cui si fatica tutti a stare al passo con le nostre conquiste.

Sono immagini contemporanee e vive, quelle fissate dall’obiettivo di Giovanni Franco, ma di una contemporaneità paradossale, fuori dal tempo, colta in un incantesimo di acronia pura, in cui i gesti antichi del vecchio pescatore che lavora la rete sul porto sembrano ricadere su quelli dei venditori di mezza età con il loro banchetto fatto di poche cose: qualche cassetta di pesce, qualche tinozza di plastica, un’ape verde malmessa. Le stesse poche cose custodite da un ragazzino probabilmente in quello stesso porto, come se si trattasse di un testimone passato di padre in figlio. Nulla a che vedere con l’odierna mutazione antropologica che esige dai nonni la capacità di stare al passo con i nipoti, di stare anche loro aggrappati ai simboli della modernità.

Quel che queste immagini ci restituiscono è dunque un’umanità minuta, prosaica che abita un tempo fuori dal tempo. E non sai se questa acronia sia frutto di uno sguardo nostalgico o piuttosto l’esito di un occhio lucido che, al di là delle messe in scene della modernità, sa cogliere una condizione esistenziale che è, al tempo stesso, la condanna di una terra al centro del Mediterraneo che fatica a trovare la propria collocazione… e una risorsa: una sorta di originaria freschezza, e luminosità, da cui ripartire con quella fiducia che è, prima di tutto, un atteggiamento, un modo di guardare le cose con quel genere di slancio che Carlo Levi riconosceva a un combattente come Danilo Dolci: «un uomo che ha fiducia (una fiducia generale nell’uomo), e fa sorgere la fiducia intorno a sé, e con quest’arma sola sente di poter far nascere la vita dove parrebbe impossibile, a poco a poco, e per forza spontanea».

Ecco, la qualità affettiva dello sguardo di Giovanni Franco ha quel genere di fiducia lì, di chi intende concedere ancora una possibilità a quanto di ancora vivo, incorrotto, vitale, irriducibile (e bizzarro anche) può esprimere questa nostra terra.

Un Emozione, un Canto di Libertà

 

di Enzo d’Antona, direttore de “Il Piccolo”

Giovanni Franco è un giornalista dell’agenzia ANSA e prima ancora lo è stato dell’indimenticato e storico quotidiano L’Ora di Palermo. Dunque è innanzitutto un cronista di esperienza consolidata, pronto a cogliere in ogni dettaglio una notizia nascosta e a volte segreta. E questa lunga pratica è ben visibile in ogni sua fotografia. Tuttavia Giovanni è anche molte altre cose. È per esempio un uomo colto per lunga tradizione familiare, è un abilissimo e spontaneo umorista sempre pronto a cogliere e codificare per l’eternità alcuni episodi che accadono a se stesso o agli amici, una schiera di cui mi onoro di far parte da una trentina d’anni. È un amante del calembour, delle stramberie, del bizzarro che si nasconde in ciascuno di noi: e generosamente elargisce, magari con un messaggio o un telefonata all’improvviso, i suoi pensieri e gli aneddoti pescati nel suo “villaggio” popolato di meccanici imbroglioni, di riparatori di condizionatori d’aria che non arrivano mai (“non diamo orari” è uno dei suoi tormentoni), di colleghi di lavoro che lo costringono ad alzatacce per trascinarlo in qualche avventura strampalata (tipo fare duecento chilometri per raccogliere tre asparagi), e così via in una gamma infinita di personaggi vecchi e nuovi che alla fine compongono un unico grande quadro. Il “villaggio”, appunto. Giovanni Franco è – ma forse avremmo dovuto dirlo all’inizio – un vero esperto di cinema, arte della quale conosce la tecnicalità oltre che la storia e le declinazioni espressive. Ed è infine un uomo solare che non riesce a nascondere le sue insofferenze, che sono tante, né i suoi frequenti entusiasmi e la sua felicità giocosa e il suo amore per la vita.
La logica conseguenza di questo ritrattino incompleto è adesso sotto gli occhi di tutti: le sue foto. Basate su due elementi tecnici e uno, chiamiamolo così, psicologico. Nella tecnica si intrecciano e si combinano il colore e la composizione. Gli oggetti, le case, le persone, insomma tutti gli “attori” sono composti cinematograficamente: è la condizione questa che suppone lo scatto, purché ci siano i colori giusti, forti e sicuri. Questi colori che in altre cose siciliane assumono una dimensione tragica e persino tetra – il cielo implacabile, la campagna di un giallo accecante, le pietraie bianche e nere – qui ci trasmettono voglia di normalità, in una inquadratura ancora una volta da macchina da presa. Colori nella magia del Cinemascope, si sarebbe detto mezzo secolo fa. E alla fine una immagine che forse racchiude in se tutta l’intensità vitale di Giovanni Franco, quello che prima abbiamo definito elemento psicologico: le ragazze sulla roccia, con una delle due sospesa in un tuffo. Un’emozione, un canto di libertà.

Uno sguardo oltre la linea

 

di Valerio Morabito, giornalista

Lo sguardo di Giovanni Franco va oltre la linea, si posiziona al di là di quello che di solito si potrebbe cogliere. E questo è un paradosso. Sì, perché per vedere la quotidianità il giornalista dell’Ansa si è dovuto posizionare «uber die linie».

È la quotidianità, quella che ormai si fa fatica a raccontare…e fotografare – I turisti che da Taormina salgono a Castelmola e visitano uno dei borghi più belli d’Italia, quando entreranno nel Museo del Castello di Mola in cui è esposta la mostra del giornalista Giovanni Franco, “L’isola a colori vista da Giovanni Franco. Viaggio fotografico in Sicilia”, dal 16 al 26 luglio, potrebbero rimanere delusi. O meglio, potrebbero rimanerci male quelli che si sono fatti un’idea stereotipata della Sicilia. Tra t-shirt del Padrino, don Corleone, coppole, lupare e litanie varie, entrare nel Museo e vedere i paesaggi siciliani, gli sfondi, i volti, il mare nelle foto di Giovanni Franco potrebbe far sorgere la domanda: ma dove sono state scattate queste foto? La risposta è in Sicilia, nell’isola in cui vive il collega dell’Ansa. È la quotidianità, quella che ormai si fa fatica a raccontare. Quella di cui non si parla, quella che con difficoltà finisce nei servizi dei telegiornali.

Per vedere la quotidianità Franco si è dovuto posizionare «uber die linie» – La mostra di Giovanni Franco non fa per gli appassionati della solita e poco credibile Sicilia. Non troveranno le foto in bianco e nero, quelle dei morti di mafia, dei bambini denutriti che giocavano lungo strade degradate. Come sottolineato dal giornalista, invece, si può scorgere «la Sicilia della luce, dei colori, delle immagini e delle emozioni». È questo il risultato di quasi cinque anni di lavoro in giro per la Sicilia. Lo sguardo di Giovanni Franco va oltre la linea, si posiziona al di là di quello che di solito si potrebbe cogliere. E questo è un paradosso. Si, perché per vedere la quotidianità Franco si è dovuto posizionare «uber die linie», per utilizzare una frase cara al filosofo tedesco Ernst Jünger. Una foto, in particolar modo, è quella che rappresenta un paesaggio che potrebbe essere associato a una città del centro Italia e invece è Corleone. Niente sangue, nessuna “minchia” metaforizzata tramite una coppola.

Noi siciliani abbiamo un gran bisogno di fermarci per vedere questi scatti – Giovanni Franco ha usato la fotografia per spogliare la Sicilia dai pre-giudizi che la umiliano e la degradano in tutto il mondo. Questa isola, quella che si può vedere nelle immagini di Franco, potrebbe essere un vero e proprio set cinematografico. La luce, del resto, si presta a farla diventare un palcoscenico perenne. «Però tutto questo dovrebbe essere coniugato con un’accoglienza, altrimenti si costringe un regista come Giuseppe Tornatore a girare uno dei suoi film, “Baaria”, in Tunisia», ha evidenziato Giovanni Franco che come un viandante ha percorso la Sicilia alla ricerca dell’essenza di questa terra. Il risultato è la mostra che si può ammirare a Castelmola, dove tra le 90 foto ne sono state selezionate 35 da parte della curatrice Milena Romeo: «Per fare una selezione ho seguito un criterio tecnico, ho scelto quelle foto che raccontavano meglio la luce di Sicilia. Poi ho cercato di capire a quale paesaggio e sfondo l’autore fosse più affezionato. Ho selezionato con molta fatica le foto più rappresentative. Lui non ha uno sguardo conflittuale, politico, ideologico o di denuncia. Ha uno sguardo affettivo». Mentre l’altro curatore della mostra, Giuseppe Filistad, ha detto che «Giovanni Franco fotografa la bella Sicilia» e in un momento come quello attuale abbiamo un gran bisogno di fermarci per vedere questi scatti del giornalista dell’Ansa.

La luce leale

 

di Milena Romeo, critico d’arte

Ho trovato le fotografie di Giovanni Franco cercando la luce di Sicilia. Ero alla ricerca di qualcuno che raccontasse il tema della nostra Rassegna con un approccio essenziale ma poetico; che rappresentasse quella luce in cui ogni siciliano è immerso, affogato, con una tale immedesimazione e identità, che difficilmente si riesce ad oggettivare e a raccontare.

Gli occhi di Franco mi hanno guidato, il suo sguardo sincero sulle cose, garantito dalla sua sicura tecnica e dalla fedeltà ai colori dei paesaggi, di terre e mari, come gli ocra, i verdi, i celesti, gli smeraldo, i cremisi, sono fissati senza alterazioni o interpretazioni.

Questo è il paesaggio che vediamo senza guardare, questa è la prosaicità della realtà che, con lui, si trasfigura in poesia, senza eccessi mitologici o derive oniriche.

La sua Sicilia è illuminata da scene che si donano con cadenza feriale, per le quali abbiamo bisogno solo di un sestante attento, intelligente, profetico.

Il fotografo è profeta, preveggenza di ciò che accade. E Franco è un segugio curioso, avvezzo com’è a cogliere la notizia, ma anche paziente e lungimirante; uno che intuisce ciò che accade per poi fissarlo soddisfatto. Lo suggeriva lui, il maestro di tutti Henri Cartier-Bresson: la “Fotografia come attesa del momento in cui la realtà si va determinando”.

È questa l’essenza di Franco, lui, che per mole culturale e spessore intellettuale potrebbe citare, interpretare, invece è così leale e raffinato che aspetta che il mondo lo illumini e che si dispieghi sotto i suoi occhi e che si manifesti mentre lui lo respira, lo assume, vi si compenetra. “Per “significare” il mondo, bisogna sentirsi coinvolto in ciò che si inquadra nel mirino. Questo atteggiamento esige concentrazione, sensibilità, senso geometrico.” Cartier-Bresson

Mi ricorda Caravaggio in Pittura, il quale, notoriamente, incanta per come declina e fissa la cruda realtà. Così Sgarbi dice di questo aspetto del genio toscano “in lui la forza degli avvenimenti è tradotta in termini così essenziali, che sembra assistervi direttamente, come se non potessero essere accaduti che così”.

Guardare la Sicilia con l’obiettivo fotografico di Franco è come stare in prima persona di fronte allo spettacolo che solo lui ha visto, che propone come una quinta maestosa e, al contempo, minuta senza sensazionalismi, facendoci credere che questa magnifica Isola non può che scorrere così.

Le distese perfette, momenti assoluti, sono scalfiti solo da dettagli di irregolarità, di decadenza, di vissuto, di crepe accennate che possono diventare voragini o rimanere là, dove le ha scovate lui, come la foglia secca e accartocciata della Canestra di frutta di Caravaggio, i piedi impolverati degli oranti de la Madonna dei pellegrini, rughe che danno verità alle cose, ferite-feritoie.

La luce per lui è, dunque, lo strumento della sincerità e dell’essenzialità della realtà, non il velo che la mistifica, ma il tocco che dà smalto e brillantezza a ciò che la nostra Isola è, a ciò che noi siamo. Perché la coscienza della bellezza ci restituisce identità. “Noi siamo il paesaggio che abbiamo introitato”G.Campione.

 

 

Noi siamo la bellezza che ci è stata data

 

di Nicola Cristaldi, sindaco di Mazara del Vallo e artista

La Fotografia di Giovanni Franco è innanzitutto essenzialista, senza scomodare le “regole della lettura” dettate da Karl Popper. Non la ricerca spasmodica del percorso degli atomi in un fenomeno ma la naturale evoluzione del tempo proiettato sugli oggetti, sulle persone, sul paesaggio, sul lavoro degli uomini, “sulla monotonia” dello scorrere del giorno. Un albero e una casa insieme come frutto della casualità colte nel momento pregnante del proprio essere in un luogo piuttosto che in un altro. La Fotografia scrive non l’attimo colto in quel momento, perché quel momento è già passato, ma anticipa il tempo che sta per venire. Franco lo sa e diventa complice di questo percorso affidandosi alla brevità dello scatto. Le foto di Giovanni Franco vanno lette più volte. Due lampade si contrappongono tramutandosi in sfere sospese e dominando l’immensità dell’albero, riducendolo a distintivo di un luogo, mentre la terra e il cielo si incontrano in una diagonale con il buio della terra e la luminosità del cielo. Una visione metafisica che “aggredisce” ogni immagine che Giovanni Franco cattura e dona in primo luogo a se stesso. Se con l’obiettivo si sa trasferire una parte di se stessi sull’immagine inquadrata, si sarà scritta una foto, altrimenti si sarà soltanto pigiato un bottone.

Giovanni Franco resta uno scrittore prestato al giornalismo che con la fotografia trasforma in concreto ciò che è tanto banale quanto straordinario: un fatto è più interessante se descritto con poche parole, se narrato brevemente lasciando al momento successivo quello che con presunzione viene detto “approfondimento”. La foto di Giovanni Franco usa poche parole, spesso infinitesimali, in millesimi di secondi, e si vendica sui lettori che per leggere quella immagine hanno bisogno di tempi inesorabili e lunghi in raffronto allo scatto. La fotografia di Giovanni Franco scorre davanti allo sguardo dell’osservatore come le note musicali si impadroniscono del silenzio di un teatro un attimo prima dell’inizio dello spettacolo.

Quel profumo di Provenza

 

di Giulio Giallombardo, giornalista 

Se la luce ha un profumo, la fotografia di Giovanni Franco trabocca di odori. Basta lasciarsi portare per mano, scatto dopo scatto, tra questi “Sentieri provenzali” per scoprire che anche le immagini possono avere un aroma. Non importa se pungente e deciso come le spezie in un mercato, fragrante come in una boulangerie o delicato come nei campi di lavanda. Quello che conta per lo sguardo da cronista di Franco è che la vita immortalata così com’è, fissata “in una frazione di secondo di realtà” – per citare Cartier-Bresson – non sia pura immagine, ma che evochi qualcosa che la trascenda.

Odori, appunto, ma non solo. A tratti, in queste foto che trasudano d’estate, si avverte anche lo scrosciare di un ruscello o il discreto brusio di chi, seduto ai tavolini di un bar, chiacchierando sorseggia un caffè o legge il giornale. Si sente anche il vociare di due ragazze che giocano a beach volley lì dove il mare non c’è o l’abbaiare di una coppia di cagnolini portati a spasso sui passeggini. Si può “ascoltare” il soffio di una bimba che gonfia un palloncino, il “canto” dei fenicotteri rosa o quello di un trio di voce e chitarra in piazza, per poi perdersi in un torrente che ricopre il verde della vegetazione, evocando sfumature d’acquarelli.

Negli scatti del giornalista dell’Ansa, realizzati tutti a mano libera, vive l’anima autentica della Provenza: dalle strade di Marsiglia, con la sua imponente cattedrale, all’ocra rossa di Roussillon; dalle saline viola di Aigues-Mortes, ai campi di lavanda di Aix-en-Provence. E ancora suggestioni e scorci di Cassis, Saintes Maries de la Mer, Arles, Tarascon, Bonnieux. Ci sono paesaggi dove l’uomo scompare avvolto dalla natura, architetture da cui sbucano figure che non ti aspetti, e ancora, visi, corpi, gesti dove il “silenzio” della fotografia diventa festa per i sensi.

La vita recitata ad altezza d’uomo

 

di Lillo Gullo, giornalista e poeta

Dal mare bisogna partire. Perciò come primo atto ci portiamo sulla terrazza del Bastione di Capo Marchiafava con un brano di Gesualdo Bufalino nella testa: “Guardo per otto ore di fila cielo e mare da un alto balcone e un respiro di magra salsedine mi morde il naso, l’orizzonte tutto mi s’apre davanti come un immenso compasso…”

Al mare bisogna poi aggiungere due mirabili giganti: la Rocca, campiere della Natura, e il Duomo, gendarme del Re (e del Papa). Avvezzi a guardare la città dall’alto in basso, la loro lusinga ha sempre adombrato la minaccia. Recepito l’ambiguo messaggio, i “sudditi” avrebbero potuto reagire sdegnosamente con l’edificazione di maestosi palazzi. E sarebbe stata una devastante guerra dei mattoni: a scapito dell’armonia dell’insieme. Invece, e per fortuna, la risposta dei cefaludesi è stata declinata con la cifra dell’understatement: abitare in sobrie dimore: confortevoli ma non appariscenti. È da questo contrasto – tra la bellezza del gigantismo regale e la bellezza del minimalismo popolare – che trae origine l’impareggiabile grazia urbanistica e paesaggistica di Cefalù.

Tuttavia, detto ciò, siamo dell’avviso che la vera grande bellezza di Cefalù sia da cercare nelle strade: tutte strette ed alcune talmente strette da reclamare un nome specifico: vanelle. Fateci caso: dalle strade resta quasi sempre esclusa la vista del mare, della Rocca e del Duomo. Ed è questa l’altra faccia della medaglia del minimalismo difensivo: nel sottrarsi alla vista dei giganti-guardiani, i cefaludesi si sono a loro volta negati la vista del mare, della Rocca e del Duomo. Le strade sono così diventate il “regno” dell’uguaglianza, lo spazio orizzontale e democratico dove lo sguardo dell’uomo, affrancato dall’altezza vertiginosa delle celle campanarie e dalla lontananza incommensurabile dell’orizzonte marino, può rilassarsi e posarsi agevolmente sui suoi simili: bambini, ragazze, giovani, anziane. Un pacifico torneo di occhi che vede la fattiva partecipazione di tutti gli attori della vita urbana: dal pescatore che srotola sulla soglia la rete da rammendare al calzolaio che lavora di lesina sull’uscio della bottega. E poi: il fruttivendolo, la gioielliera, il caffettiere, la sarta, il panettiere, il muratore, la casalinga. E, naturalmente, il passante, la figura della strada che più guarda e che più è guardata e che, nella nostra narrazione, assurge a “maschera” chiave. Infatti, è solo grazie al “travestimento” da passante che il fotografo Giovanni Franco ha potuto impigliare nella sua pupilla digitale alcuni fotogrammi di questo umanissimo teatro di sguardi amorosi, curiosi, indiscreti, invidiosi, gioiosi

. Fotogrammi che ora, squadernati in tutta la loro intrigante bellezza davanti ai nostri occhi, vanno a comporre un lirico canto: l’inno alla vita recitata ad altezza d’uomo.

 

Frammenti di paesaggi immaginari

 

di Nicolò D’Alessandro, critico d’arte

Qualche tempo fa, dieci anni per l’esattezza, scrivevo che viviamo immersi in un grande “blob”, in un continuo “zapping” delle immagini fisse (fotografie, pitture) che per sopravvivere a se stesse e per sostenere il ritmo delle immagini in movimento (televisione, cinema) sono costrette a rimodellarsi e rimandare alla nostra percezione, accelerata dagli eventi per naturale adattamento ai fenomeni mediatici, uno stravolgimento di senso che naturalmente allontana una visione meditativa. Con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: la mancanza di capacità critica diffusa e la superficialità di tipo consumistico che accompagna molte generazioni. Il problema, nel tempo, si è sempre più aggravato circa la sua fruizione. Ma oggi la fotografia legata all’immagine, alla sua esteticità, al suo irrinunciabile valore documentario riconsegna la possibilità, tra realtà e finzione, di reinventare il ruolo fondante del mezzo, Dimostra la rinnovata vitalità nel territorio dell’arte, del suo sistema che le assegna il ruolo di fluidità espressiva all’interno di tutte le arti, in un contesto sempre più complesso della comunicazione. La fotografia riabilita una “esigenza espressiva” che supera il pregiudizio di un mezzo, considerato a torto, soltanto riproduttivo e documentario della realtà per diventare uno strumento indispensabile di indagine e di ricerca che reclama una contemporaneità inedita e consapevole, al di là della mancata coscienza critica di massa. La fotografia è al contempo memoria, partecipazione emotiva e ideativa ma senza la “consapevolezza”, viene privata dei significati nascosti della realtà. È il legame con il mondo e le cose e gioca sapientemente tra verità e menzogna. Elementi questi ultimi fondamentali dell’essenza dell’arte.

 

Sono passati molti anni dalle prime mostre fatte da Giovanni Franco che conosco da ragazzo. Lo seguo dalle sue prime prove in bianco e nero. Sin d’allora faceva pratica di manipolazione dell’immagine e tale scelta ha portato avanti coerentemente sino alle fotografie della ricerca attuale. Voglio ricordare, nel concitato clima della Postavanguardia, una mostra degli anni ottanta fatta assieme al pittore Giusto Sucato dove un “suo paesaggio” fotografico (referenza dell’immagine) interagisce con i valori pittorici (essenza del colore) nel gioco linguistico di quegli anni dell’Intermedia, Multimedia, Mec Art (termine quest’ultimo coniato da Pierre Restany), in “una sinergia di coinvolgimento creativo – puntualizzato dal critico Francesco Carbone – richiesto oggi dalle più pressanti esigenze della cultura visiva”.

 

Per leggerne la cifra giusta, per dargli una collocazione esemplificativa, si potrebbe dire che è un “fotografo di paesaggi immaginari”. Un paesaggio umanizzato e inventato sia con la presenza di uomini, sia per la loro assenza rivelata dagli oggetti d’uso tra paradossi ed incanti. Un non luogo rievocato tra improvvisi amori, tra suggestioni e sorprese. La raccolta interminabile degli scatti fotografici restituisce l’accumulo davvero inquietante dei particolari. L’abile fotografo nel suo gioco, deliberatamente ambiguo, nella sommatoria inventariale del suo corpus fotografico senza tempo, da il sospetto che voglia darci un’idea di “totalità”.

 

L’occhio rivela ciò che costruisce con la mente, parcellizza, viviseziona la realtà percepita e la costringe a divenire immagine fotografica trasbordante sano ottimismo. Parlo di ottimismo poiché anche quando si occupa di luoghi degradati e deprivati del ruolo originario, oggetti da discarica, questi assumono la speranza di un riscatto sempre positivo. Confeziona emozioni e ricordi.

 

Spazia con disinvoltura, dal paesaggio al ritratto, alla fotografia di posa, dal meditato reportage alla sorpresa di uno soggetto improvviso per non perdere l’inseguita immagine che sempre riporta a qualcos’altro. Cerca nell’assenza provocatoria di una visione descritta nella sua semplicità realistica, la complicità dello sguardo per completare il racconto. Osservatore attento, passeggia indisturbato nelle piazze di Giorgio De Chirico, nei racconti metafisici del fratello Savinio. Raccontano i suoi scatti l’ipotesi di un futuro certamente migliore. L’obiettivo fa il resto. Nel suo block notes personale Giovanni Franco registra, in tal modo, frammenti di realtà, li piega al desiderio di fermare il tempo con le immagini attraverso il suo ostentato nomadismo creativo di generi totalmente diversi.

 

Un rigoroso ordine compositivo lo cautela da un atteggiamento generico e quindi dispersivo. I suoi scatti suggeriscono gli aspetti inediti e non sondati della realtà visibile che coincidono quasi sempre con quelli da lui immaginati. Non ultimi, nel repertorio del suo paesaggio emotivo, sono gli autoritratti che costituiscono un pretestuoso modo per rendere l’apparecchio fotografico feticcio ed esibito trofeo nello stesso tempo.

 

Viaggiatore appassionato e attento esibisce nelle sue scorribande fotografiche, in giro per il mondo, da Parigi a Polizzi Generosa, dalla spiaggia di Mondello all’incanto di Cefalù o Taormina, una specie di ansia, una addomesticata nevrosi dell’immagine che diventa un inventario complesso, una raccolta organica di particolari che ci restituisce come tasselli di un gioco borgesiano. A volte ironico, a volte analista Giovanni Franco si rende titolare di metafora e di oggetti privati del loro ambiente naturale e di particolari che diventano indispensabili macchine teatrali della controllatissima messa in scena di un racconto che insegue se stesso. Alla ricerca di un mondo diverso di cui ognuno vorrebbe essere parte. Diventerebbe pleonastico, forse superfluo e riduttivo, occuparsi soltanto di un’immagine o un particolare d’immagine poiché tutto appartiene ad un enorme inventario raccontato, descritto in uno spazio molto personale. Un mosaico di una grande unica trama. Ecco. Il suo racconto ci appare come narrazione e disvelamento del mondo visibile attraverso il non conoscibile. In alcuni scatti la non riconoscibilità del soggetto tenderebbe all’astrazione se non fosse per un particolare improvviso che ci riporta alla realtà del visibile. E tutto diventa inequivocabilmente racconto. Verità mascherata e finzione sono il filo logico di una consapevole narrazione.

 

«Le fotografie – ha occasione di scrivere Giovanni Franco in una bella autopresentazione – possono raggiungere l’eternità attraverso il momento, come affermava Henri Cartier-Bresson. E chissà quante volte nella nostra memoria abbiamo impresso immagini indelebili che raccontano un episodio trasformandolo in emozione. A volte uno scatto vale più di tante parole. Ci capita così di ricordare spesso il punctum, come Roland Barthes descriveva il dettaglio, che desta in maniera a volte soggettiva l’attenzione maggiore in uno scatto. Ed è proprio la ricerca del particolare che in me ha destato curiosità in questi anni, nei quali prima in analogico e ora in digitale, ho appoggiato al mio occhio le varie reflex”. In queste affermazioni ritroviamo il suo atteggiamento colto e consapevole nei confronti della scelta fotografica fatta in tutti questi anni. Cercare la bellezza, attraverso la fotografia, che nasce dallo stupore nel vedere cose conosciute nascoste nell’ombra e rivelatesi per la prima volta. Correndo infine il rischio concreto di appropriarsi del concetto di felicità e della gioia di vivere attraverso le sue microstorie dove cerca di ridefinire il suo vissuto.

 

Per queste ragione non sono molto sicuro che il movente sia soltanto fotografico, ma nutro il sospetto, se non la certezza, che la parola, il racconto suggerito dagli oggetti, dai particolari di un oggetto siano la vera spinta ideativa. Quasi inevitabile, per me, lettore fedele dello scrittore turco Orhan Pamuk, pensare, osservando le numerose fotografie, a quel suo “Museo dell’innocenza”, ad Istanbul, voluto dallo scrittore per fermare il trascorrere del tempo,s per stabilire definitivamente che i confini tra l’immaginario e la realtà sono molto labili. Che la realtà visibile degli oggetti è soprattutto ricordo e memoria di se, del proprio vissuto.

 

Vivendo artisticamente parlando, tra torri di babele, icone e miti nei precari luoghi dell’incanto, nel mio laboratorio Museo del Disegno, frutto delle continue sollecitazioni e suggestioni letterarie, ho pensato al breve romanzo fantastico, a quel “Castello dei destini incrociati” di Italo Calvino e a quei giochi d’incastro dove i racconti suggeriti dei tarocchi sono legati gli uni agli altri. E la storia narrata segue altre strade, altre storie. Un’opera combinatoria, cioè, come mi risulta essere l’”inventario” di Franco. Una fotografia rimanda ad un’altra in un compulsivo rincorrersi di intuizioni improvvise, di associazioni di idee. Siamo, per alcuni aspetti, dentro la scrittura di Borges, dentro l’Aleph.

Racconti fotografici

 

di Luca Mazzone, regista, direttore teatro Libero

Siamo immersi nel mondo dell’immagine. Oggi tutto è immagine e non possiamo fare a meno che guardare, riflettere, rifletterci in una susseguirsi di immagini. Troppe forse, troppo banali a volte. Sicuramente il nostro occhio si è assuefatto. Dunque è sempre più difficile che una foto possa catturare la nostra attenzione per più di qualche secondo.
Giovanni Franco, invece, con le sue storie, le sue visioni, raccontate attraverso le sue fotografie, ci cattura non solo l’occhio, ma soprattutto la mente. Ogni foto, ogni architettura, persona, volto, panorama, catturato dalla sua arte di fotografo, diventa per la nostra immaginazione e la nostra mente, una storia che si avviluppa in innumerevoli rigagnoli di storie e di racconti. Così come la vita ci rapisce nel dipanarsi di un racconto, così le foto di Giovanni ci ridanno l’unica cosa che ci permette di pensare e riflettere senza cadere nel banale e nella noia: la prospettiva

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Oltre lo sguardo che frammenta e ricompone la realtà

 

di Federica Certa, giornalista

“Una fotografia è un segreto intorno ad un segreto. Più rivela e meno lascia capire”. Diane Arbus, americana, ebreo-russa, cacciatrice del freak” nascosto nell’umanità più abietta e del “proibito” che rovescia le convenzioni e spalanca nuovi mondi all’arte e alla vita, non potrebbe essere più diversa, come epoca, come poetica e come approdo – tragico – al mondo di storie e visioni di Giovanni Franco.

Eppure le sue parole – solo un’idea nel mare sterminato di banalità o paradossi, dubbi e certezze che si sono scritti e detti sulla fotografia nei secoli – danno il senso di quella parte insondabile, nascosta eppure limpida, che nelle immagini del giornalista dell’ANSA palermitano cattura lo sguardo e invita a guardare oltre, a immaginare nomi e biografie, memorie e aspettative, dietro ogni scorcio di uomini e cose. Per chi non ha dimestichezza con i “ferri del mestiere” è sempre utile conoscere come e con cosa una foto viene alla luce. Un po’ come quando a scuola si studiava la poesia italiana dei Romantici e qualche professore pseudo-progressista pretendeva di muovere comprensione e sintonia per i versi di Leopardi senza spiegare la sua dannazione nel corpo e nell’anima, la grazia inquieta di una mente geniale prigioniera di una “natura matrigna”. Così bisogna fare un passo indietro e conoscere gli strumenti di lavoro di Franco, come le note di una biografia essenziale, per entrare autenticamente nel suo universo, e apprezzarne la semplicità disarmante, la verità senza filtri e senza pose, la bellezza tranquilla, ma a tratti sorprendente, che ruba da uno scorcio parigino piuttosto che da un’arrampicata di pietre sotto il sole della Sicilia. Una Canon a tracolla, niente flash, niente cavalletto, ed ecco che tutto si fa più chiaro. Non servono grandi impalcature a Giovanni Franco per raccontare la sua realtà, davanti e dietro il velo dell’apparenza. E non è certo approssimazione o parsimonia tecnica, per uno che ama e studia da sempre il cinema e conosce a fondo la storia della fotografia.

È invece una scelta consapevole, uno stile, che fugge dalle acrobazie dell’intelletto per cedere al gioco, ben più avvincente, dell’emozione.

E ci riesce, con quelle che in un quadro sarebbero poche, efficaci scie di pennello, perché si arrende al colore e alla normalità del quotidiano che, catturato nell’istante perenne di una reflex, diventa teatro umano, rappresentazione dell’intero spettro di sensazioni e desideri che ogni singolo osservatore può carpire e conservare, del mondo, attraverso il mondo di un altro.

Un nuovo sito internet e un ebook dal titolo lieve ed emblematico di “Scattaiolando”, documentano la passione – di una vita, divisa fra il mestiere di cronista, che fiuta aneddoti e avventure anche là dove sembra esserci solo brulla pianura, senza scosse e senza vette, e il richiamo prepotente della macchina fotografica, come appendice di sé, come quaderno di appunti, come prisma che frammenta e ricompone la realtà.

Dalla grandeur di Parigi, che si fa dettaglio, minuzia, prospettiva inconsueta, monumento “fragile”, allo stupore genuino delle vedute madonite, di Sciacca e di Castelmola; dal duomo di Cefalù alle colonne di piazza San Pietro; dalle facce comuni alla natura abbagliante, dai pescatori ai bambini, dal pittore di strada al cuoco che dispensa pani ca’ meusa, dalle ragazze scintillanti che si tuffano in mare al giovane “poliparo”, dal rettangolo di Mediterraneo che appare salvifico dalla cornice di un vicolo al vecchio barbuto con la pipa da marinaio, tutto è fotografato, amato, rapito con la gioia candida di un ragazzo che guarda divertito la magia piccola della vita, che non si è rassegnato ai labirinti della filosofia di risulta, ma ha preferito battere le strade aperte dell’empatia, generoso e gioioso nel suo cammino di esploratore e narratore, interprete di tutto ciò che esiste ma spesso non è visto, che ci parla ma non viene ascoltato, che ci può cambiare, senza neanche che ce ne rendiamo conto. “Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate”, diceva Gilbert Chesterton, in polemica contro la febbre da dogmatismo della sua epoca. Eppure, forse, fuor di metafora, a volte è necessario armarsi – magari anche solo di una macchina fotografica – per mostrare il colore delle foglie, per sentire l’odore del vento, il fruscio delle reti al porto, per cogliere tutto lo splendore di un tempo, nel presente, che sembra uguale a molti altri, e invece è incredibilmente unico. Dietro l’obiettivo si può, con un linguaggio e una forza che sono accessibili a tutti. Le foglie sono verdi d’estate, ci dicono queste foto. Verdi e bellissime.

Tasselli cromatici in un gioco di specchi 

 

di Rosana Rizzo, docente di Lettere

“Mentre impari ad usare le storie dentro le storie voglio metterti in guardia sulla solita storia”, scriveva Richard Bandler. Una finestra si riflette in una pozza d’acqua, l’asfalto è grigio e materico, le persiane socchiuse invitano a saperne di più. Ciò che sembra essere una macchia di colore, in realtà è una incongruenza, uno scarto del racconto che ribalta la storia e si impone come elemento centrale: un coltello dal manico rosso, un aereo che vola accanto ad un gabbiano, un viso al sole tra le colonne. Anche il sontuoso balcone barocco ti dovrebbe dire altro, racconta una storia abbastanza consueta, ma qualcosa non torna nei vasi dai toni eccessivi o in una tenda scostata; un racconto dentro il racconto che non è mero procedimento narrativo, ma una naturale tendenza al paradosso dell’artista che ama ribaltare le prime sensazioni. Il giornalista Giovanni Franco sembra procedere lento in una presentazione paradigmatica di un contesto, in realtà sta coinvolgendo l’osservatore in una cooperazione narrativa: sfrutta la prospettiva e la valenza geometrica degli oggetti, satura con il colore valorizzando la terra, l’intonaco, l’acqua, fa di quest’ultima, che sia mare, pioggia o pozzanghera, uno specchio che riflette o allunga le forme, portando lo sguardo verso ciò che è tra le pieghe della realtà,il punto più denso che ti consente l’interpretazione del racconto. Il piede del pescatore che ferma la rete, le lingue di terra quasi “isole verdi su mari immobili”, come scrisse Quasimodo, le lame di roccia colpite da un mare epico,tutto richiama un intento letterario, la volontà di scardinare la solita storia . Che si tratti di mare o raggio di luce, il gioco dei riflessi è gioco di specchi ed è coinvolgente, perché l’autore richiede una complicità nello sfidare ad immaginare le storie dentro le storie. Ciò che colpisce è la fusione di una connaturata propensione alla narrazione con una tecnica che può a ben ragione definirsi pittorica. Le fotografie di Giovanni Franco sono proprie di un occhio e di una mente che vede attraverso forma e colore, avendo una estrema dimestichezza del rapporto tra l’uno e l’altro. I colori sono usati come elementi che costruiscono lo spazio, cosi come questo è definito dalla prospettiva e dall’uso delle diagonali. Le volumetrie sono chiare, le sbrecciature dell’intonaco diventano incastri geometrici quasi astratti, scaglie che delimitano piani, le foglie sul prato sono tasselli colorati, come si operasse una trasposizione, dalla realtà alla pittura, come se Giovanni Franco vedesse attraverso una lente che rende la natura arte.

Album di viaggio

 

di Valeria Ferrante, giornalista Rai

«Mostrare a vista»: è questo uno degli aspetti deputati alla fotografia. Portare in evidenza, cioè, una porzione di realtà. Svelare quel micro-universo che giace non visto o appena scorto e che solamente dopo il clic, l’unità di misura che segna il confine di ogni “scatto”, emerge, manifestandosi, ora sì, davanti ai nostri occhi.

Ma perché parlare di fotografie, all’interno di uno spazio dedicato notoriamente ai libri? La risposta avrebbe rallegrato Michel Foucault, al quale piaceva immaginare che un libro non lo si dovesse considerare solo un “testo”. Egli era animato dalla ricerca di fabbricare qualcosa che si rivelasse utile per avanzare, abbattere i muri, andare oltre. Pensava quindi ad un libro che superasse i confini fisici. Una possibilità resa oggi concreta, grazie al fatto che alcuni volumi non possiedono più la loro consueta forma. È in atto da qualche anno a questa parte un vero e proprio mutamento genetico per via dei cosiddetti libri elettronici, i quali senza inchiostro, senza carta, vivono dentro appositi ebook reader, dei lettori touchscreen, che riescono a contenere centinaia di opere digitali, divise per argomento in biblioteche virtuali. Per quanto recente e non da tutti condivisa, la novità ebook, si evolve, crea proseliti, sia fra autori che fra lettori, i quali sempre più spesso vi ricorrono per far veicolare, a budget ridotti, parole, pensieri, o, come in questo caso, immagini. Scattaiolando il titolo dell’ebook, del giornalista dell’Ansa Giovanni Franco, è infatti un libro fotografico destinato alla visione sul web, che si può acquistare (2,49 euro, Narcissus Self Publishing editore) in tutti gli store Internet specializzati. Recentemente salito al secondo posto nelle classifiche di vendita di tutti gli ebook venduti in rete, questo volume elettronico, impaginato da Flora Graiff, con un’introduzione del poeta e giornalista Lillo Gullo, è un racconto immaginifico di due viaggi che si intrecciano l’uno con l’altro, collegando la Sicilia alla Francia, Palermo a Parigi. Ogni luogo descritto, che sia Cefalù, Cerda, Polizzi Generosa, la spiaggia di Trabia, o l’Ile de France, è un capitolo, ogni capitoloè un’immagine, e dietro e dentro ogni immagine, vi è una narrazione. Un resoconto che si anima come se si trattasse di uno storyboard, come se i pensieri che lo componessero echeggiassero, parafrasando Wittgenstein, proprio nel vedere. E cosa accade quando qualcosa entra all’interno del nostro campo visuale e ci coinvolge emotivamente? Cerchiamo di descrivere la sensazione provata con frasi, oppure ci serviamo di una macchina digitale Canon, come quella che tiene al collo l’autore di questo ebook, e così fermiamo l’istante, la scena di cui siamo testimoni, in un frame, lasciando che sia essa a rivelarsi. Ed è esattamente in questo modo, fotogramma dopo fotogramma, che Giovanni Franco sviluppa una sua mappa concettuale composta da territori, personaggi, oggetti, atmosfere, paesaggi che innescano sempre diversi piani di lettura e di riflessione. «Le fotografie – scrive Franco nell’introduzione – possono raggiungere l’eternità attraverso il momento, come affermava Henri Cartier-Bresson. E chissà quante volte nella nostra memoria abbiamo impresso immagini indelebili che raccontano un episodio trasformandolo in emozione. A volte uno scatto vale più di tante parole. Ci capita così di ricordare spesso il punctum, come Roland Barthes descriveva il dettaglio, che desta in maniera a volte soggettiva l’attenzione maggiore in uno scatto. Ed è proprio la ricerca del particolare che in me ha destato curiosità in questi anni, nei quali prima in analogico e ora in digitale, ho appoggiato al mio occhio le varie reflex. Analizzando l’inquadratura in un gioco di luci e profondità di campo». La fotografia è un’arte che confina con la vita e forse per questo, come il cinema, sa rappresentare ogni dislivello e caotica impressione di un contesto, ogni elemento chiaro o implicito, naturale o imprevedibile. L’umano si fonde al meccanico e così nascono le immagini, come quella in cui l’esile sagoma di un ragazzino si staglia scura su una lunga striscia di luce. Questa proviene da una porta finestra che irradia tutto di un colore bianco talmente accecante da far scomparire ogni cosa. A circoscrivere la fisionomia della finestra sono alcuni elementi scuri, come gli infissi, o l’insegna che in alto, proprio sopra la cornice, reca scritto: “terrazza sul mare”. È lì che si sta dirigendo il ragazzo, con andatura ondeggiante, vuoi per la lucentezza abbagliate, vuoi perché tutto intorno, nel ristorante, è in silenziosa penombra. I tavoli, appena distinguibili con il carico di bicchieri e stoviglie, seguono l’incedere del giovane, mentre due persone, un uomo e una donna, sono in attesa forse del pasto, forse del conto o forse stanno solo pensando se il ragazzo sparirà davvero dentro quella forma compatta di luce che giunge dalla terrazza. Ma le suggestioni che questi scatti trasmettono sono tante, come quelle che provengono da un omone seduto su un telo da mare, nel brecciolino della spiaggia di Trabia, che di fianco, col volto ruotato a osservare una lontana porzione di mare, con un biberon allatta il suo piccolo in braccio. “Amore paterno” è il titolo che Franco ha scelto per questa foto, con la quale ridisegna l’iconografia classica che ha da sempre contraddistinto l’amore filiale. Sfogliando, pagina dopo pagina, ecco arrivare gli echi, i colori, i riflessi di Parigi. Due grandi labbra rosse che goliardiche spruzzano acqua nella Fontana Stravinsky o “Fontaine des automates”. I ritratti alle sottili nuche delle passanti lasciate in vista dai capelli raccolti in lunghe code. E le vediamo andar via, le donne di Parigi, lungo i boulevard, oppure le lasciamo sedute, di spalle, su una panchina, con la speranza di coglierle di sorpresa in un abbraccio o nel desiderio che si voltino a guardarci.

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